sabato 7 febbraio 2009

LE INCAPACITA' EUROPEE NELLA CRISI DI GAZA



Il governo israeliano ha iniziato l’operazione “piombo fuso” contro Hamas in
un momento di transizione della politica globale, con il passaggio di consegne
alla Casa Bianca tra Bush ed Obama, e con il cambio alla presidenza di
turno dell’Unione europea tra la Francia di Sarkozy e la Repubblica Ceca del
presidente Klaus e del primo ministro Topolànek.
L’azione lampo israeliana nei territori palestinesi, ha rotto il coro delle voci
dei governi europei, che si erano intonate, sotto la guida del maestro
d’orchestra Sarkozy, ottenendo risultati mai visti in passato, come la trattativa
con la Russia per il ritiro delle truppe dalla Georgia. Ed in effetti, fino a
quando il Presidente francese ha retto il timone, si era giunti ad un piano
europeo concordato dai 27 governi riuniti in Dicembre a Parigi, con la
richiesta ad Israele e ad Hamas di un cessate il fuoco permanente, con
l’accesso agli aiuti umanitari per i bisognosi ed una richiesta della riapertura
della trattativa di pace.
Lo scenario è totalmente cambiato con il passaggio di consegne tra Sarkozy e
Topolànek. Nell’assurdo gioco a turno del semestre di presidenza, in uno
dei momenti più tragici della crisi israeliano-palestinese, è “capitata” la
presidenza dell’Unione, ad un governo con pochissima esperienza internazionale,
che negli ultimi anni si è dichiarato fieramente euroscettico, preferendo
sempre i rapporti con Washington a quelli con Bruxelles. Ed infatti
hanno suscitato tetro stupore, le prime affermazioni di Topolànek su Gaza:
“l’azione di Israele è difensiva e non offensiva”.
Tali dichiarazioni hanno provocato uno scoramento nell’azione europea, che
si è divisa in due: da una parte le istituzioni europee, guidate dalla Cechia e
da Javier Solana, dall’altra la Francia di Sarkozy e di Kouchner. Entrambi
hanno parlato, nei vari vertici che si sono conseguiti, a nome europeo,
aumentando la confusione nella trattativa per il cessate il fuoco. Si è arrivati
al punto che la voce più intraprendente per l’Europa è stata quella di Abu
Mazen, presidente dell’ANP, che ha chiesto una forza d’interposizione
internazionale tra Gaza ed Israele, con guida Europea, sul modello della
missione Unifil in Libano.
Mentre la Presidenza dell’Unione, è rimasta in una situazione di stasi, la
Francia, insieme al Presidente egiziano Mubarak, hanno proposto un piano
per il cessate il fuoco tra israeliani e palestinesi, seguito da una serie di rapidi
incontri bilaterali da tenersi in Egitto, al fine di concordare una tregua più
consistente, con l’apertura immediata di un corridoi umanitario tra Gaza e
l’Egitto. A tale proposta, portata avanti con fermezza, si sono accodati gli
Stati Uniti, l’Onu e l’Unione Europea.
Mentre la Presidenza dell’Unione, è rimasta in una situazione di stasi, la
Francia, insieme al Presidente egiziano Mubarak, hanno proposto un
piano per il cessate il fuoco tra israeliani e palestinesi, seguito da una serie
di rapidi incontri bilaterali da tenersi in Egitto, al fine di concordare una
tregua più consistente, con l’apertura immediata di un corridoi umanitario
tra Gaza e l’Egitto. A tale proposta, portata avanti con fermezza, si
sono accodati gli Stati Uniti, l’Onu e l’Unione Europea.
La fermezza egiziana è riuscita a mandare in porto l’operazione, ed il 17
Gennaio Israele ha firmato il cessate il fuoco unilaterale, seguito il 18 da
Hamas. Si conclude così una guerra costata oltre mille vittime tra la
popolazione civile, che non ha indebolito né militarmente né politicamente
Hamas, e che non ha dato sicurezza alla popolazione israeliana.
Ma la vera lama che ha rotto il nodo gordiano del conflitto in armi è stata
la proclamazione di Obama a presidente degli Stati Uniti: mentre a Washington
si svolgeva la cerimonia, gli ultimi thank israeliani uscivano da
Gaza. L’esercito di Davide si ritira, quasi in segno di omaggio al 44esimo
presidente degli Stati Uniti. Quest’ultimo , saggiamente, ha effettuato la
prima telefonata dallo studio ovale al presidente palestinese Abu Mazen,
segnando implicitamente una volontà di cambiamento nelle relazioni USA
-Medio Oriente.
E l’Unione Europea? E’ totalmente scomparsa dalla scena, schiava di una
Presidenza debole, obbligata da trattati che non le danno la possibilità di
esprimersi con una vera leadership internazionale, ed incapace di guardare
avanti nel processo di processo di integrazione.
Un primo passo avanti sarebbe l’approvazione del Trattato di Lisbona,
che finalmente crea la figura del “Presidente dell’Unione Europea” indipendente,
non più scelto a turnazione tra i Presidenti degli Stati membri.
Ma a mio avviso questo non è ancora abbastanza: non è sufficiente avere
un Presidente, se questo non può portare avanti un’unica politica estera.
Non si può vivere con la speranza che vengano portate avanti politiche
estere comuni, unicamente grazie al caso o ad una leadership occasionale,
come nel caso della soluzione georgiana o della missione Unifil.
Urge la necessità di un Governo federale europeo, che abbia pieni poteri
contrattuali, che abbia la forza di imporre con coerenza il proprio punto
di vista. Dice un detto napoletano: “troppi galli a cantare, non schiara mai
il giorno”, e per l’Europa, questa notte, rischia di diventare sempre più
buia.

Roberto Novelli

IL PACCHETTO CLIMA

Il Parlamento Europeo ha approvato il 17/12 con una larga maggioranza il pacchetto climaenergia,
il famoso 20-20-20. Il primo obiettivo del Pacchetto, con la Direttiva ETS
(Emission Trading Scheme) è quello di ridurre le emissioni dei gas serra del 21% nel 2020
rispetto al 2005 nei settori trasporti, agricoltura ed edilizia. Prevede un sistema di aste, dal
2013, per l’acquisto di quote di emissione, i cui introiti andranno a finanziare misure di
riduzione delle emissioni e di adattamento al cambiamento climatico. Oggi le quote di Co2
sono assegnate gratuitamente e si paga solo in caso di superamento dei tetti previsti, alcuni
paesi dell’est Europa pagheranno però il 100% delle emissioni nel settore energetico solo a
partire dal 2020. Per gli altri settori la responsabilità sarà invece dei governi.
Il secondo obietti vo è quello di arrivare al 20% di risparmio energetico e il terzo è quello di
portare la quota di energie rinnovabili al 20% del consumo energetico finale entro il 2020.
Le fonti energetiche rinnovabili sono quelle fonti non fossili, come quelle eolica,
solare, geotermica, aerotermica, idrotermica, l'energia oceanica, idroelettrica, la biomassa, i
gas residuati dai processi di depurazione e i biogas. Attualmente la quota di energie rinnovabili
sul consumo totale di energia in Italia è pari al 5,2% che l'obiettivo nazionale fissato
dalla direttiva porta al 17%. Per gli altri "grandi paesi" il consumo attuale e la quota obiettivo
sono, rispettivamente, i seguenti: Germania 5,8 e 18%; Spagna 8,7 e 20%, Francia 10,3
e 23%, Polonia 7,2 e 15%, Regno Unito 1,3 e 15%. Per raggiungere più agevolmente
l'obiettivo, gli Stati membri dovranno promuovere e incoraggiare l'efficienza energetica.
Due o più Stati membri potranno anche cooperare su tutti i tipi di progetti comuni per la
produzione di energia rinnovabile in forma di elettricità, calore e freddo. Ai fini del rispetto
degli obiettivi in materia di rinnovabili, tale cooperazione, che potrà comprendere operatori
privati, dovrà riguardare progetti realizzati sul loro territorio e messi in servizio dopo l'entrata
in vigore della direttiva o grazie all'incremento di capacità di un impianto ristrutturato.

La direttiva fissa inoltre una serie di condizioni affinché, ai
fini del calcolo della quota-obiettivo, possa essere presa in
conto la produzione di energia elettrica realizzata in
un paese terzo. Ad esempio, occorre che l'elettricità sia
consumata nell'UE e sia prodotta da un impianto che diventi
operativo o che sia potenziato dopo l'entrata in vigore del
provvedimento. Uno Stato membro potrà anche chiedere
alla Commissione di prendere in conto, a determinate
condizioni, l'energia rinnovabile prodotta e consumata in
un paese terzo nel contesto della costruzione di un interconettore
tra lo Stato membro e il paese terzo.
In ogni caso, gli Stati membri dovranno adottare un piano d'azione che fissi gli obiettivi
nazionali in materia di quota di energia rinnovabile nel settore dei trasporti, dell'elettricità e
del riscaldamento e raffreddamento nel 2020, tenendo conto degli effetti delle altre politiche
relative all'efficienza energetica, e le misure da adottare per raggiungere detti obiettivi,
inclusa la cooperazione tra autorità locali e nazionali, progetti congiunti, politiche nazionali
per lo sviluppo delle risorse della biomassa esistenti e per lo sfruttamento di nuove risorse
della biomassa. Il piano d'azione dovrà essere notificato alla Commissione entro il 30 giugno
2010.
Riguardo ai costi del Pacchetto la Commissione li valuta in 91 miliardi per il 2020, di cui 8
per l’Italia, contro i venti ipotizzati in precedenza. Il risparmio per l’importazione di idrocarburi
è valutato in 50 miliardi e in 10 miliardi per la diminuzione dell’inquinamento. A
questi benefici vanno aggiunti quelli economici per l’innovazione del sistema industriale e
l’apertura a nuovi mercati, che porteranno alla creazione di nuovi posti di lavoro in Europa.

Alessandro Zunino

STATI UNITI ED EUROPA: DUE ECONOMIE A CONFRONTO

L’economia non è un meccanismo per far soldi ma uno strumento che lo Stato ha a disposizione
per garantire ai propri cittadini una qualità della vita più alta possibile. Normalmente,
per valutare le prestazioni economiche di un Paese, si utilizza il tasso di crescita del Prodotto
interno lordo. Quest’ultimo non è altro che il valore monetario di tutte le merci prodotte in
un anno all'interno di un Paese e destinate ad usi finali, come consumi, investimenti ed
esportazioni. Negli ultimi nove anni per cui sono disponibili i dati Eurostat (l’istituto statistico
dell’Unione Europea) ovvero il periodo 1999 - 2007, il Pil statunitense è cresciuto del
127% contro il solo 124,1% dell’Unione Europea a ventisette Stati. Poco cambia se prendiamo
in considerazione l’Europa a 15: la crescita è del 123%.
Questi dati vanno affiancati a quelli relativi al Pil pro-capite, ovvero la ricchezza media di cui
dispone ogni individuo: il reddito medio di un cittadino statunitense nel 1999 era maggiore
del 60% rispetto a quello di un abitante dell’UE-27. Oggi la differenza è del 50%, a causa di
una crescita della popolazione molto più marcata in nord America che in Europa. Insomma,
stando al PIL, sembra che gli statunitensi godano di una qualità della vita enormemente
maggiore rispetto a quella di noi europei e che se questo distacco sta diminuendo, la ragione
è il maggiore aumento della popolazione americana rispetto a quella europea e non una
migliore performance economica del Vecchio continente rispetto al Nuovo.
Hanno quindi ragione i numerosi economisti neoliberisti che sostengono che
l’Europa dovrebbe adottare dei modelli economici più simili a quello degli
USA?
Probabilmente no, per il semplice motivo che, come diceva l’inventore del Pil Simon Kuznets,
“il benessere di una nazione” può “difficilmente essere evinto da una misura del reddito
nazionale”. Cerchiamo di capire il motivo. Se una petroliera affonda nei pressi delle coste
della California,il Pil della California aumenta. Infatti andranno ad accrescere il prodotto
interno lordo le spese per il recupero della nave, quelle per la depurazione del mare nonché
le spese per l’acquisto del nuovo petrolio che andrà a sostituire il greggio perduto
nell’incidente. Quindi il Pil aumenta anche a causa di attività economiche che non migliorano
la qualità della vita della popolazione.
Stabilito che quantomeno ci sono dei ragionevoli dubbi nel considerare il Prodotto interno
lordo come una valida misura del benessere, a questo punto sorge spontaneo chiedersi se
esistano delle alternative al reddito pro capite per quantificare la qualità della vita.
Tra i numerosi indici che sono stati elaborati in questi decenni citiamo l’HDI, ovvero lo
Human Development Index. Tale indice tiene conto, oltre che del Pil pro-capite, anche
dell’aspettativa di vita, del tasso di alfabetizzazione e del titolo di studio mediamente conseguito
dalla popolazione di un Paese. Secondo i dati riportati nello Human Development
Report 2007/2008, relazione stesa annualmente dalle Nazioni Unite, i divari tra l’Unione
Europea a quindici Stati e gli Stati Uniti in termini di HDI sono minimi e si nota una netta
convergenza dei valori: nel 1980 il rapporto tra l’HDI degli Stati Uniti e quello dell’UE-15
era 96,734 contro un rapporto tra i rispettivi PIL pro-capite di 74,987. Nel 2005 i risultati
erano rispettivamente 99,215 e 79,525. A causa della mancanza di dati purtroppo non è
altrettanto agevole fare la stessa analisi per l’Europa a ventisette Stati. In ogni caso vediamo
come cambiando gli indici di riferimento si ottenga un rovescio immediato del giudizio sulle
prestazioni: l’economia europea negli ultimi venticinque anni ha praticamente raggiunto
quella statunitense, se ci riferiamo all’Europa a quindici.
Ma per confrontare le prestazioni economiche di due Paesi possiamo anche esaminare uno o
più settori fondamentali per qualità della vita della popolazione e valutare le performance
registrate dagli Stati che ci interessano.
Prendiamo per esempio la sanità, un campo importantissimo sia per la nostra salute e quindi
per il nostro benessere, sia per l’economia, visto che le spese sanitarie occupano una percentuale
molto significativa del PIL delle economie più avanzate. In particolare, sempre secondo
lo Human Development Report (HDR), nel 2004 gli Stati Uniti hanno impiegato nella sanità
il 15,4% del loro PIL totale, contro il solo 8% dell’UE-27 e l’8,8% dell’Unione a 15. Da
notare tra l’altro che negli Stati Uniti la sola spesa privata nel settore sanitario ammonta
all’8,5% del PIL.
Per avere un’idea di quanto sia si pensi che il Paese dell’Unione europea in cui il settore
privato spende di più nella sanità è la Grecia con il 3,7% del PIL. A fronte di questi dati, se
la semplice spesa fosse un indicatore di benessere, dovremmo aspettarci che gli statunitensi
godano di una salute di ferro se paragonata a quella di noi europei. Invece se sfogliamo
qualche tabella dell’HDR scopriamo che la realtà è molto diversa. A fronte di una spesa
sanitaria pro-capite quasi tripla nel 2004 rispetto a quella europea, gli USA riescono a garantire
la presenza di 256 medici ogni 100.000 abitanti, contro i 323,5 dell’Unione a 27 stati.
Se guardiamo poi all’efficacia dei servizi scopriamo che l’aspettativa di vita degli americani è
di 77,4 anni, contro i 76,6 dell’Europa a ventisette e i 78,7 dell’UE-15: una differenza
minima se si pensa alla disparità di spesa. Riportiamo infine i dati sulla mortalità infantile,
diminuita drasticamente in tutti i Paesi industrializzati tra il 1970 e il 2005. Tuttavia negli
Stati Uniti attualmente la mortalità infantile è pari al 6 per mille, contro il 4,4 per mille
dell’Europa a quindici e il 5,4 di quella a ventisette.
Che conclusioni possiamo trarre da questi numeri?
Sicuramente il risultato dell’analisi rende lecito sostenere che il PIL non sia un indicatore di
benessere molto affidabile e che andrebbe sostituito da indici più avanzati. Il problema è che
il PIL è più facile da calcolare rispetto ad altri indici e, soprattutto, ormai è entrato a tal
punto nell’uso che dovremo aspettare parecchio tempo prima che venga abbandonato.
A questo proposito tuttavia la Commissione Europea si è dimostrata molto sensibile e ha
elaborato una “strategia per lo sviluppo sostenibile dell’Unione”, rinnovata nel 2006, che si
preoccupa di valutare i progressi dell’Unione in vari campi, quali quello socio-economico, i
cambiamenti demografici e la salute pubblica. Siamo ancora agli inizi di una valutazione più
realistica delle performance economiche e non solo, ma è già un significativo passo avanti il
fatto che una delle maggiori potenze mondiali si sia posta il problema di valutare le proprie
politiche non solo attraverso l’andamento del prodotto interno lordo.
La seconda conclusione da trarre è che se si compiono analisi leggermente più approfondite,
spesso risulta che l’economia europea in molti campi non è inferiore a quella statunitense,
anzi è ben più efficiente. Ne abbiamo dato un esempio analizzando la spesa sanitaria e i risultati
ottenuti. Con questo non vogliamo dire che l’Europa sia la nuova El Dorado e che gli USA
siano destinati al tracollo, anche perché in molti campi l’economia statunitense è ancora molto
più competitiva di quella europea. Il messaggio che vogliamo lanciare è piuttosto quello di
diffidare di analisi spesso volutamente superficiali che, per ragioni ideologiche, mirano più a
dimostrare la superiorità del modello americano che a valutare l’effettivo andamento
dell’economia.

Enrico Sbolli

UN PROGRAMMA DI GOVERNO PER L'EUROPA


Il 6-7 giugno 2009 si voterà per il rinnovo del Parlamento Europeo, elezione che dal
1979 avviene a suffragio universale diretto, unico caso al mondo di parlamento sovranazionale
legittimato democraticamente. Le numerose iniziative lanciate in vista di queste elezioni,
soprattutto in ambienti europeisti e federalisti, sono volte innanzitutto a rendere il dibattito
pre-elettorale un’occasione per discutere di temi “realmente europei”, vale a dire per fare in
modo che queste elezioni non siano una replica di quelle politiche e amministrative nazionali,
in termini di temi trattati.
La motivazione risiede in una considerazione molto semplice: la recente crisi, in quanto
globale, mostra chiaramente la necessità di trattare alcuni temi chiave a livello sovranazionale,
di fronte alla totale inefficacia da parte degli Stati nazionali di gestirli.
E’ bene sottolineare che tale inefficacia non è da intendersi come incapacità degli stati di fare
politica ma deve piuttosto interpretarsi come un limite naturale ad affrontare tematiche che,
derivando direttamente dal processo di globalizzazione, hanno cause ed implicazioni che
travalicano i confini nazionali e che solo prescindendo da tali confini possono essere innanzitutto
comprese e poi adeguatamente gestite.
La stessa logica “europea” è quella che dovrà essere adottata dal Parlamento eletto se vorrà
essere incisivo nella trattazione delle sfide cui si trova di fronte l’Europa. Negli ultimi mesi
infatti la crisi economico-finanziaria, il surriscaldamento del pianeta e la protezione
dell’ambiente, la politica estera europea, sono stati trattati con dichiarazioni “di principio” di
cui solo nel medio termine si potrà valutare l’efficacia, ed questo un ruolo fondamentale sarà
ricoperto proprio dal Parlamento Europeo, chiamato a discutere e a deliberare sulle misure
volte a gestire queste stesse materie, con spirito di iniziativa e attenzione al comune interesse
europeo.
Primo punto sull’agenda sarà inevitabilmente la crisi finanziaria. Lo European Economic Recovery
Plan adottato dalla Commissione a fine novembre ha di fatto ricompreso sotto un unico nome
i contributi nazionali già previsti per lo stimolo della domanda all’interno dell’Unione Europea
a fronte della crisi che nei prossimi mesi investirà con ogni probabilità l’economia reale.
Di fronte a questa situazione, solo un progressivo e maggiore coordinamento delle politiche
economiche degli Stati Membri, con l'obiettivo (urgente) di una politica economica comune
da affiancare alla già esistente politica monetaria in capo alla Banca Centrale Europea, potrà
avere la legittimità per rendere l'economia Europea, nel suo insieme, capace di vincere la
sfida della competitività internazionale, anche con l'ausilio di nuovi strumenti finanziari, in
particolare l'emissione di Eurobond (titoli di stato europei), soprattutto a fronte della crescente
sfiducia verso i titoli di stato dei paesi dell'Unione, per finanziare coraggiosi programmi
di investimento e di ricerca e sviluppo.
L’accordo sul “Pacchetto Clima” nel corso dell’ultimo Consiglio Europeo, e la successiva
approvazione da parte del Parlamento Europeo, è stato certo un traguardo importante.
Tuttavia, senza voler entrare nei dettagli tecnici, fa riflettere il persistere di un approccio
del tutto intergovernativo, con paesi come l’Italia pronti ad usare il diritto di veto, andando
contro i propri stessi cittadini, che vivono, anche loro, in un mondo “surriscaldato” e a
corto di risorse energetiche.
Tra le altre sfide con cui il Parlamento Europeo che eleggeremo a giugno dovrà confrontarsi
c’è poi quella della politica estera. Anche in questo caso, è la paralisi inflitta dai comportamenti
degli Stati nazionali a dar da pensare. La presidenza francese, che pure ha lavorato
bene (soprattutto durante la crisi georgiana), ha interpretato la tanto agognata “voce unica”
in politica estera come la voce unica di un leader che non solo mirava a “entrare nella storia”
(sarebbe il male minore) ma ha confermato la visione di un’Europa-potenza in cui agli
stati sono affidate, in via esclusiva e con diritto di veto, le competenze chiave dell’Unione,
soffocando di fatto i meccanismi comunitari.
Di fronte al PE, nel discorso conclusivo del semestre di presidenza, Sarkozy ha affermato
che "sarebbe un errore voler passare sopra la testa dei governanti eletti in nome dell’ideale
europeo" come se i parlamentari europei non fossero eletti in modo democratico e dunque
non fossero di diritto espressione di questo ideale.
Ideale che dovremmo ricordare tutti quando andremo a votare il prossimo giugno, senza
lasciarci guidare da logiche "interne". Solo in questo modo consegneremo al Parlamento
eletto un mandato, un programma di governo volto a gestire le maggiori sfide europee,
forte della propria legittimità democratica e capace di restituire ai cittadini europei la
fiducia nel sogno dei padri fondatori di un governo europeo, federale, che è più vicino di
quanto si possa immaginare.


Chiara Cipolletta
Presidente della Gioventù Federalista Europea

sabato 24 gennaio 2009

SLOVACCHIA: BENVENUTA NELL’EURO


La Slovacchia dal 1° Gennaio 2009 è la sedicesima nazione dell’Unione Europea ad aver adottato l’Euro.

Con un tasso di cambio di 30.13 Corone per un Euro, la Slovacchia è il sedicesimo Stato membro ad aver adottato l’euro, ed è la quarta nazione tra i nuovi Paesi membri entrati nel 2004 ad aver adottato la moneta unica dopo la Slovenia, Cipro e Malta.
A lungo si è stati titubanti sul reale ingresso della Slovacchia in Eurolandia, visto che attualmente è fuori dal parametro di Maastricht riguardante l’inflazione (che deve essere al di sotto dell’1,5% dei dodici paesi più virtuosi), che attualmente è al 4.7%, secondo una rilevazione fatta a Novembre 2008, ed una parte del Parlamento europeo infatti aveva chiesto di rimandare il suo ingresso fino al 2010. La Commissione europea ed il Consiglio dei ministri hanno però approvato il suo ingresso l’8 Luglio del 2008, ed il Parlamento ha approvato in seguito con 519 voti a favore. Le istituzioni europee, hanno preferito in questo caso anticipare i tempi, al fine di mettere la Slovacchia sotto l’ombrello protettivo dell’eurozona, per evitarle i rischi di forte svalutazione delle monete piccole (ed anche più grandi, basti vedere la situazione della Sterlina inglese) che si sta verificando in questo periodo di crisi.
Per far sentire più vicino al cuore slovacco la nuova moneta, è stato fatto un sondaggio per decidere quali effigie imprimere. Gli slovacchi si sono trovati a votare ad un referendum su dieci icone, per sceglierne tre. Dal 20 dicembre si sa che le monete da 1, 2 e 5 eurocent recheranno l’effige del monte Kriváň; quelle da 10, 20 e 50 eurocent raffigureranno il castello di Bratislava e quelle da 1 e 2 euro porteranno il classico stemma slovacco, la croce patriarcale sulle tre alture dei monti Matra, Tatra e Fatra.
La popolazione ha apprezzato l’ingresso nella zona Euro, secondo un recente sondaggio, infatti, il 58% apprezza la moneta unica, anche se il 65% degli slovacchi teme però che con l’introduzione dell’Euro vi sia anche un aumento dei prezzi, anche se il governo, retto dal social-democratico Fico, ha imposto una controllo serrato sui prezzi. In generale comunque la Slovacchia è uno dei paesi che fino ad ora ha retto meglio alla crisi, con una previsione di crescita del PIL nel 2009 del 4%: dimezzata rispetto all’anno precedente, ma sicuramente di molto superiore a quella di buona parte degli altri paesi dell’area Euro.


Roberto Novelli

Europa olimpica nel 2012 (forse)


Le Olimpiadi cinesi si sono concluse da pochi mesi ed è ancora vivo il ricordo delle gare e delle medaglie, ma i comitati olimpici di tutto il mondo sono già al lavoro per preparare la prossima edizione dei giochi, che si svolgerà a Londra nel 2012. In vista di questo importante appuntamento sportivo l’Associazione Radicale Esperanto (ERA), soggetto costituente del Partito Radicale Nonviolento, ha avanzato due proposte che riguardano i paesi membri dell’Unione Europea: la possibilità per gli atleti europei di gareggiare con la bandiera dell’Unione accanto a quella nazionale; il conteggio formale dei risultati dell’Unione nel medagliere olimpico. Riccardo Agabio, vicepresidente del CONI, il comitato olimpico italiano, si è già espresso favorevolmente su questo argomento, durante un intervento ai microfoni di Radio Radicale. Se le proposte dell’ERA possono apparire puro folklore di fronte alle sfide e alle difficoltà di carattere economico, culturale e istituzionale del processo di integrazione europea, bisogna però tenere in debita considerazione l’impatto simbolico che esse potrebbero avere. Le bocciature referendarie, prima in Francia e Olanda e poi anche in Irlanda, che il trattato costituzionale europeo ha incontrato sul suo cammino, unite ai risultati di numerosi sondaggi e alla costante crescita elettorale dei partiti nazionalisti un po’ dovunque nel continente, ci restituiscono l’immagine di una cittadinanza europea sfiduciata e disunita. Gli europei sembrano preferire l’Europa delle patrie alla patria Europa e questo atteggiamento non può che costituire un freno per l’integrazione. Anche il leader politico più europeista deve sempre fare i conti con gli umori del suo elettorato. Come invertire dunque la tendenza? Quando i cittadini di diversi paesi europei si troveranno allo stadio oppure davanti alla televisione a fare il tifo per lo stesso atleta, magari in competizione con avversari provenienti da altre regioni del pianeta, quando poi quei cittadini, a fine giornata, osserveranno il medagliere e vedranno la bandiera stellata stabilmente in cima alle classifiche (l’insieme delle medaglie vinte dai singoli paesi avrebbe consentito all’Europa unita di surclassare Stati Uniti e Cina anche durante la più recente edizione), ecco allora forse risorgerà un autentico spirito europeo anche a livello popolare. Lo sport è capace di suscitare emozioni e di creare appartenenze che vanno ben al di là dei trattati e dei vertici internazionali. D’altronde non si dice che gli italiani diventano patriottici solo quando vedono giocare la nazionale di calcio? E non potrebbe valere lo stesso anche per gli europei?

Marco Del Ciello

MOSCA AMMETTE: E' STATO PUTIN AD ORDINARE L'INTERRUZIONE DELLE FORNITURE DI GAS

E' il primo ministro della Federazione Russa, Vladimir Putin, il responsabile del blocco totale delle forniture di gas in direzione dell'Ucraina, proposta avanzatagli del capo del consorzio monopolistico Gazprom Aleksej Miller. Così riporta l'emittente NTV.

Ancora la mattina del 7 gennaio, Gazprom incolpava Kyiv per la chiusura del quarto (l'ultimo) gasdotto attraverso il quale il gas russo viene trasportato agli altri paesi europei.

Tuttavia, più tardi è emerso come sia stato lo stesso Putin ad ordinare il taglio totale delle erogazioni di gas verso l'Ucraina, facendo propria la proposta di Aleksej Miller, con cui il primo ministro russo ha avuto un incontro nella sua residenza di proprietà nei pressi di Pietroburgo. I dettagli ed i retroscena dell'incontro sono stati accuratamente documentati da NTV, emittente televisiva dell'impero mediatico di Gazprom.

"Sono in totale accordo con la Sua proposta. Tuttavia bisogna farlo pubblicamente, in presenza di osservatori internazionali" ha risposto Putin secondo quanto riportato da NTV. Sempre in base alla medesima fonte di informazione – tradizionalmente attendibile sulle questioni di politica interna russa – Putin avrebbe anche chiesto a Miller se Gazprom fosse in possesso, oltre al rapporto accuratamente preparato dagli esperti del colosso monopolista russo, di qualche documento attestante le responsabilità ucraine sull'interruzione dell'afflusso di gas in Europa da poter utilizzare come capo d'accusa nei confronti di Kyiv in ambito internazionale.

La conseguenza dell'ordine di Putin ha comportato l'immediata drastica riduzione dell'afflusso di gas in alcuni paesi UE, ed in altri addirittura l'interruzione totale. In un paio d'ore Ungheria, Bosnia, Bulgaria, Grecia e Turchia – rifornite unicamente per mezzo di condutture transitanti attraverso l'Ucraina, a differenza di Polonia e Paesi baltici, che possono contare anche sugli approvvigionamenti dei gasdotti che passano per il territorio bielorusso – sono rimaste a secco: il premier bulgaro Sergej Stanišev ha subito telefonato alle autorità russe per convincerli che l'UE non può essere vittima dello scontro tra Mosca e Kyiv. La Slovacchia ha dichiarato lo stato di emergenza economica.
La sera dello stesso giorno, la crisi è stata avvertita anche in Francia – dove gli approvvigionamenti sono diminuiti del 70% - Italia – che ha registrato un calo di circa il 90% – e Germania, dove le imprese tedesche hanno ammesso la ricezione di minor quantità di gas senza, però, specificarne la quantità.
"Senza assicurazioni da parte delle più alte autorità russe ed ucraine le forniture di gas ai paesi europei sono sensibilmente diminuite. Tale situazione è per noi inaccettabile" hanno scritto in una nota congiunta la Commissione Europea e la presidenza ceca dell'Unione.

Sebbene Praga escludesse inizialmente una mediazione europea nel conflitto tra Mosca e Kyiv, il ministro ceco dell'Industria e del Commercio Martin Řiman ha constatato come la presa di posizione di Bruxelles abbia "cambiato radicalmente la situazione", ed ora la presidenza di turno ceca non esclude l'organizzazione di un vertice UE ad hoc insieme con i rappresentanti di Russia ed Ucraina. "E' nostro interesse fare di tutto affinché ambo le parti raggiungano un accordo" ha dichiarato il premier ceco Mirek Topolánek.

Altro Paese molto attivo sul piano diplomatico per risolvere la crisi è la Polonia: il premier Donald Tusk ha proposto un summit tra i ministri dell'industria e dello sviluppo economico dei paesi dell'Unione per concordare una comune posizione europea; il ministro della difesa Radosław Sikorski ha comunicato che Varsavia pur cercando di non inasprire lo scontro con la Russia "sarà ambasciatrice a Bruxelles delle ragioni dell'Ucraina"; il presidente Lech Kaczyński, invece, dopo aver sottolineato la necessità di una posizione più dura nei confronti di Mosca, si consulterà coi colleghi slovacco, ungherese e ceco in occasione della riunione del quartetto di Vyšegrad, in programma a Bratislava nei prossimi giorni.

A dimostrazione della responsabilità russa sull'interruzione della forniture di gas all'Europa, il 6 gennaio il presidente ucraino Vyktor Juščenko ha fatto appello a Mosca per un "immediato" ripristino del transito di combustibile attraverso l'Ucraina con un lettera inviata al presidente russo Dmitrij Medvedev e al capo della Commissione Europea José Manuel Barroso. In essa, Juščenko ha anche ribadito la piena disponibilità da parte di Kyiv a garantire il regolare transito di gas attraverso il territorio ucraino.

Matteo Cazzulani


Presidente associazione Annaviva

MAMMA LI TURCHI!



Motivi plausibili e scenari possibili dell’ingresso turco nell’Unione Europea

Il titolo di questo articolo rende bene l’idea del taglio che mi prefiggo di conferire all’argomento in questione, quello dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, da più parti trattato con toni talmente messianici da rischiare di trasformare la questione in una battaglia degli assoluti che sarebbe, secondo la mia modesta opinione, fuorviante, esagerata e oltremodo controproducente . Necessitano quindi di essere sdrammatizzati con lucida obiettività.
La relazione della Turchia con L’UE può essere metaforicamente descritta come una lunga e travagliata storia di amore e odio, dato che il Paese anatolico bussò per la prima volta alle porte dell’ Occidente nel lontano 1963, con l’Accordo di Ankara e da allora ripetutamente fa capolino alla nostra finestra come un amante respinto che, senza darsi per vinto, conserva la flebile speranza che il partner muti finalmente i propri sentimenti. La Turchia è dunque un Paese europeo e può essere ammessa al consesso dell’Unione? Trattare l’argomento da un punto di vista unitario non è possibile proprio per la intrinseca complessità delle relazioni in gioco ed è giusto, a mio avviso, scindere le varie componenti della vicenda in più parti che chiariscano al meglio gli snodi profondi, che sono essenzialmente di natura identitario-culturale da un lato e politico-diplomatico dall’altro.
Il piano su cui la relazione euro-turca sembra essere, di primo acchito, più suscettibile a critiche e dubbi è sicuramente quello culturale, per lo meno considerando quella parte, forte, di sentimento popolare che vedrebbe nei nostri vicini una comunità troppo differente dall’identità europea. Il freno più importante è tirato dall’argomentazione che considera il popolo turco poco in sintonia con le caratteristiche culturali del nostro continente. Ma quali sarebbero queste caratteristiche? Se volessimo procedere con un breve excursus scopriremmo che il filo rosso del destino europeo preso ad esempio altro non è costituito che da motivazioni di carattere religioso e etnografico. Per ciò che concerne la prima motivazione, i prodromi della costruzione della “Casa Europa” vengono saldamente e esclusivamente ancorati alla comune matrice giudaico-cristiana che trasversalmente interessò la formazione delle società nazionali dalla caduta dell’Impero Romano in poi. Non vi è dubbio che la religione abbia svolto un importantissimo ruolo di fattore coesivo, ma l’argomento rischia di essere a mio avviso riduttivo e fuorviante, se non altro per il fatto che il progetto di Costituzione europea già rigettò di declinare la questione da un punto di vista teologico affermando infatti che altri sono i presupposti teoretici che l’Unione ha adottato come cardini fondanti. Non dobbiamo infatti dimenticare la natura primariamente tecnica del progetto comunitario, caratterizzata, soprattutto all’inizio, da esigenze di natura economica e politica e basata sul superamento degli storici conflitti da essa derivati durante il XIX e XX secolo. Per questo lo snodo identitario risulta alquanto pretestuoso e soprattutto pericoloso se lo si modella sulla questione religiosa. E’ infatti inevitabile constatare che la Turchia sia un Paese musulmano, ma analizzando meglio l’evoluzione della sua società dal tempo dello scossone civilista di Kemal Ataturk fino ai giorni nostri non si può fare a meno di notare quanti passi siano stati fatti nella direzione della laicizzazione dello stato. Certamente qualcuno potrebbe avanzare l’obiezione che un partito di forte estrazione religiosa sia ora al governo, ma altrettanto facilmente si potrebbe ricordare che alcuni rigurgiti di “tradizionalismo” sono un normale fenomeno di adattamento in una società tesa al cambiamento come quella turca che, naturalmente, cerca di proteggersi da repentini sconvolgimenti delle sue classiche strutture; senza poi considerare il fatto che altri Paesi europei (Italia in primis) hanno tutt’oggi un rapporto molto ambiguo con le influenze religiose nella propria vita politica e che l’ingresso di un membro proveniente da una differente orizzonte molto probabilmente non rischierebbe di “islamizzare” l’Unione (come alcuni temono), bensì di fornire l’ultimo impulso per una seria e definitiva laicizzazione delle istituzioni comunitarie tale da garantire una solida base di pari opportunità di natura civile e non teologica. L’altra motivazione addotta, quella etnografica, è essa stessa priva di fondamento, dal momento che la Comunità ha già al suo interno numerose differenze etniche con popolazioni che spesso hanno pochi tratti somiglianti o che, al massimo, si raggruppano in sottoaree culturali come quella romanza o ugro-finnica i cui unici punti di contatto sono di natura quasi prettamente linguistica, proprio perché si tratta di un’entità che sintetizza molteplici realtà nazionali.
Se un problema di aderenza alla tradizione occidentale deve a tutti i costi essere rilevato, questo semmai si situa nell’ambito giuridico. Sebbene molti passi siano stati compiuti per far allineare il codice turco a quello della maggioranza degli stati europei, come ad esempio la destituzione della pena di morte e il miglioramento del sistema penale e carcerario, altre pratiche liberticide (Orhan Pamuk incriminato!) che violano i basilari principi del moderno stato di diritto sembrano dure a morire e condizionano fortemente lo spirito di apertura di quelle nazioni che per decenni si sono battute per la diffusione delle libertà e i diritti civili al loro interno e in sede internazionale. Inoltre, pesante quanto un macigno, la questione della minoranza curda sembra tutt’altro che risolta e anche se nelle aree ad alta antropizzazione le politiche di integrazione cominciano a dare i frutti, nei profondi territori rurali molti altri episodi di discriminazione continuano a verificarsi. Il punto cruciale sembra quindi essere più l’interiorizzazione della tradizione giuridico - politica liberale ormai diffusa e istituzionalizzata in tutta la Comunità che non supposte barriere culturali e religiose, facilmente sdoganabili con efficaci politiche di mediazione su larga scala, senza dimenticare poi che i processi di socializzazione non sono delle identità con un destino già segnato ma possono essere anche indirizzati dalla volontà degli uomini verso concrete politiche di integrazione.
Lo snodo che a mio avviso è realmente importante è quello politico-diplomatico che a differenza della “questione culturale”, cartina di tornasole usata da alcune personalità per dare un fondamento teorico al no contro l’ingresso turco, può costituire sia un’eccezionale opportunità di integrazione e di aumento dell’influenza dell’Unione intesa come soggetto a se stante sia un fattore di forte destabilizzazione del processo di integrazione stesso e di stallo politico. In quest’ottica, i principali scenari diplomatici possono essere considerati tutti quanti ambivalenti e, proprio per questa caratteristica, risultano quindi cruciali ognuno nella propria peculiarità.
Il primo “fronte” da analizzare è quello della valenza simbolica di un possibile ingresso turco nell’Unione. In un epoca in cui i processi di globalizzazione, apparentemente irrefrenabili e anche poco governabili, spingono i popoli della terra a contatti sempre più pervasivi, accentuando spesso i momenti di attrito piuttosto che quelli di dialogo e nella nostra particolare epoca storica in cui diversi studiosi (per esempio S. Huntington) non scorgono altro risultato da questo processo se non uno “scontro di civiltà”, il passo definitivo dell’accettazione turca costituirebbe un fortissimo segnale di apertura e porterebbe la prova tangibile che la mediazione e la predisposizione costruttiva verso le differenze, da entrambe le parti, può anche generare risultati positivi e non solo reciproca diffidenza, odio e distruzione. L’entrata della Turchia in una realtà oggettivamente a lei non pienamente conforme potrebbe essere considerato un esempio, anche pratico, di risoluzione dei conflitti dell’area mediorientale e fornire quindi un punto di appoggio per la sua stabilizzazione, se non altro perché la credibilità dell’Unione nel porsi come mediatore aumenterebbe notevolmente avendo al suo interno un membro decisamente più affine alle caratteristiche socio-demografiche di quella regione. Inoltre, lo spostamento ad Sud-Est dei confini politici della Comunità avrebbe come risultato quello di fornire un sicuro baluardo contro ipotetiche infiltrazioni terroristiche, avvalendosi della decennale esperienza dell’esercito turco, molto ben addestrato e assai sostanzioso (circa 800’000 effettivi), che vanta una consolidata collaborazione tecnica e tattica con il vicino israeliano.
Lo scenario sembra quindi porre solo rosee aspettative, se non ché, affrontando meglio la distribuzione delle alleanze ci si accorge che l’ambivalenza riscontrabile è tutt’altro che leggera, dal momento che la collaborazione stretta tra Israele e Turchia potrebbe anche catalizzare negativamente i sentimenti delle popolazioni arabe, molto sensibili al fatto che un paese musulmano sia così strettamente legato al loro principale rivale politico e militare.
Il secondo spunto di analisi si concentra sull’ambiguo ruolo di alleato che la Turchia svolgerebbe una volta considerata la sua posizione centrale nella NATO, soprattutto in rapporto con gli Stati Uniti. Come ho poc’anzi ricordato, Ankara possiede una solidissima compagine armata che la pone come il secondo paese più militarizzato, dopo gli USA, dell’Alleanza Atlantica e proprio per questa sua vocazione di territorio cuscinetto nei confronti sia dell’area mediorientale che del potente orso sovietico, i rappresentanti di Washington vollero fortemente stabilire relazioni sempre più strette con i governi turchi. Ora che lo spauracchio dell’URSS non ha più ragione di esistere, questa sua posizione potrebbe facilmente essere utilizzata come faro di attrazione di tutte le repubbliche panturaniche (Uzbekistan, Tagikistan etc.) che precedentemente erano incatenate alla volontà di Mosca. Non v’è bisogno di sottolineare quale eccezionale possibilità di influenza su tutta l’area caucasica l’Unione si troverebbe ad esercitare, con tutti i corollari economici, commerciali e di approvvigionamento energetico al seguito, ma è certo che anche il potente alleato nordamericano si troverebbe nella posizione di esigere una relazione speciale con la Turchia in virtù delle stesse motivazioni. Non appare quindi strano e spassionato il continuo interessamento statunitense per un ingresso di Ankara negli affari di Bruxelles ed è anzi ovvia l’intenzione di manipolare questo processo di allargamento in funzione atlantista ricalcando la stessa modalità di ingerenza già sperimentata per gli ex stati socialisti e per le tre repubbliche baltiche. Come molti ricorderanno ci fu una spettacolare contingenza tra le adesioni al trattato istitutivo e l’ingresso di quelle nazioni nella NATO, così cronometricamente allineate da far impallidire anche le prestazioni del più efficiente orologio svizzero!
Bisogna quindi che gli strateghi domiciliati nelle varie capitali europee siano ben consapevoli del possibile rovescio della medaglia. Senza fomentare facili polemiche, già una volta, durante gli anni sessanta e settanta, gli Stati Uniti riuscirono nella loro opera di pilotaggio morfologico delle istituzioni comunitarie, inserendo attivamente il piede di porco britannico come avamposto di sicuro controllo delle vicende continentali; non sia mai che la storia si ripeta perché in questo frangente il risultato sarebbe assai deleterio e comprometterebbe pesantemente la capacità di autonomia estera dell’UE, precipitandola forse per sempre al rango di vassallo degli yankees.
Il terzo scenario, meno citato ma quello probabilmente più importante, ha a che fare con l’annosa questione della divisione dell’isola di Cipro in due entità politiche dal 1974 ed è quello che maggiormente ostacola la ripresa dei negoziati e che si insinua come una spina nel fianco della politica interna all’Unione. Oltre ai dubbi di natura sia culturale che politica fin qui evidenziati, la situazione cipriota apre un serio fronte di conflitto e viene ripetutamente avanzata come scoglio insormontabile sia dalla Grecia che da altri membri ogni qual volta il governo di Ankara avanza richieste. Se infatti la parte nord dell’isola è sede di un governo di occupazione turca, riconosciuto solo dallo stato anatolico e quindi passibile di tutti i crismi di illegalità internazionale collegata ad una simile situazione, va anche sottolineato il fatto che sia Atene che i suoi fiancheggiatori (su tutti, la Gran Bretagna che gode dell’extraterritorialità di due basi) non hanno mai lasciato trasparire la seria volontà di giungere ad un compromesso, consapevoli forse che la reazione militare turca degli anni settanta avvenne a ragion veduta per tutelare la minoranza del nord dal colpo di stato filo-ellenico, avvenimento che tra l’altro sovvertì la pacifica organizzazione data all’isola dagli accordi del 16 agosto 1960. La questione è oltremodo imbarazzante soprattutto se si considera che i due Paesi sono entrambi membri della NATO! Un possibile spiraglio potrebbe verificarsi solo nel momento in cui una consistente maggioranza di Paesi europei ponessero alle parti un ultimatum di collaborazione al fine di sbloccare lo stallo e porre come condizione per ulteriori negoziati il ripristino della sovranità dell’isola. Certamente ciò non dovrebbe significare una unilaterale ritirata di Ankara, bensì un nuovo processo di riorganizzazione amministrativa che consenta la migliore gestione delle divisioni etniche sotto l’egida, anche militare, dell’Unione stessa.
La conclusione che si può trarre è quindi molto semplice e come il suo autore, ispirata dai più elementari principi di realismo politico. Quando i Padri della Comunità intrapresero il cammino, difficile ma avvincente, del processo di integrazione difficilmente credo avrebbero vaticinato che un così radicale e imponente meccanismo politico si sarebbe messo in moto. Tuttavia, i casi della storia hanno fatto sì che l’embrionale CECA si trasformasse in quanto di più simile all’idea di Giovine Europa sia oggi riscontrabile, ponendo le fondamenta per una futura entità che finalmente costituisca la casa di tutti gli europei. Ed è con tale spirito pionieristico che i nostri governanti dovrebbero rompere lo stallo negoziale e continuare nel processo di avvicinamento alla Turchia, comprendendo sia le enormi potenzialità che questo nuovo membro porterebbe con sé, sia schivando gli ipotetici rischi che la sua posizione di borderliner inevitabilmente comporta con l’unico scopo in mente di costruire una comunità sempre più ricca e sempre più forte. Del resto alternative concrete non si intravedono, né ritengo sia seriamente plausibile ritornare sui passi fatti, soprattutto se questi hanno moltiplicato i sentieri di collaborazione tra l’Europa e la Turchia negli ultimi 40 anni, legando ormai a doppio filo i destini di questi due soggetti politici.
Federico Maisenti

Una noche en … Salamanca!

Salamanca è conosciuta in tutta Spagna come la città del divertimento per antonomasia.
La città dove tutto è possibile, soprattutto durante la notte!
Popolata da studenti universitari provenienti da ogni parte del mondo che favoriscono a rendere la notte Salamantina, speciale, magica, diversa , UNICA!
La noche Salamantina è solita cominciare nel rinomato bar chiamato “LA CHUPITERIA” il locale chupiti con la C maiuscola, per poi passare direttamente al camelot un ex-convento che è stato poi convertito nell’attuale tempio del divertimento.
Dopo queste due tappe “fisse”c’è l’imbarazzo della scelta, a seconda del taglio che vuoi dare alla tua serata; se hai voglia di una serata forte, il cubic è il locale per te, in particolare il venerdì con il suo dj set elettronica – minimal – techno ti farà ballare fino alle 7 della mattina. Se invece cerchi qualcosa di più soft vai al khandavia, musica commerciale e successi dagli anni 80 ai giorni nostri. Se infine cerchi un suono più alternativo il British museum e il Piper ti offrono una suono rock , pop, indie e alternative anni ‘60/’70/’80.
Se invece non vuoi fermarti in un locale solo, ma visitarne piu di uno, Salamanca è piena di stupendi disco – pub, il country è un esempio, locale arredato stile Gaudì, musica diversa ogni sera, oppure il dolcevita, il Luux, l’Atahualpa e il suo giovedì open bar, la Bibliotheca e le sue serate universitarie, o la posada de las animas e le sue serate a tema e i suoi cocktail omaggio per poi fare tappa al paniagua il “centro sociale” salamantino dove dovrai provare la specialità della casa: il Calimocio. Potrai ascoltare pezzi storici e vecchi successi musicali mondiali, cantare e ballare tra la folla e se hai voglia e tempo potrai anche farti una bella partita a biliardino fila permettendo, visto che è l’attrattiva del locale ed è sempre occupato!
Ovviamente anche l’irish rover è da provare, le serate migliori sono il lunedì con il gioco della birra preferito dagli americani, il martedi con la serata erasmus a tema e l’open bar fino alle 3 del mattino, e il mercoledi con il karaoke-canta tu!
La vita notturna di Salamanca, non si sa mai bene a che ora cominci, qualche volta comincia alle 11 ritrovandosi in plaza mayor sotto l’orologio, altre volte comincia alle 2 dopo una cena o un bottellon a casa di amici, ma una cosa è certa ... non finisce mai prima delle 6!



Giulia Scotti

ITALIANS DO IT WORST


Un egemonia lunga quasi trent’anni, in Italia chi comanda le classifiche musicale è un sparuto gruppo di artisti che proprio non ne vuole sapere di andare in pensione.
Ma non è certo esclusivamente colpa della loro cupidigia, in parte la carenza di novità di un settore volutamente lasciato in disarmo, ha fatto in modo che le novità introdotte di anno in anno potessero essere davvero poche, tanto che se si confrontano le classifiche ufficiali degli ultimi 20anni i nomi son sempre gli stessi e pochissime band si sono aggiunte. Questo per quanto riguarda il mercato nazionale, negli altri paesi europei affianco dei vari “dinosauri” nazional-popolari vi è un sottobosco fitto e fresco di band musicali, tendenze e generi che inquinano le chart di ogni tipo.
Forse la mancanza di una cultura musicale, spazi ridotti, gestori dei locali improponibili, regole severe e i lunghi tentacoli della SIAE hanno pesantemente influito sulla carenza di progetti freschi made in Italy. Il risultato è che siamo la nazione delle cover bands; le uniche che riescono a suonare nei locali italiani son quelle band che scimmiottano i grandi nomi italiani e non. E così Vasco Rossi, Ligabue, la Pausini, Tiziano Ferro e Subsonica riescono a penetrare ovunque lasciando le briciole al resto. Gli eventi più importanti di musica indipendente italiana faticano a sopravvivere, in parte perché le autorità comunali e para statali hanno una percezione della musica che si ferma a Patty Pravo in parte perché non vi è un grandissimo interesse in materia, le classifiche italiane rispecchiano il gusto dei giovani( sigh) che rimangono fortemente ancorati al passato e poco propensi a nuovi progetti che non siano sapientemente già confezionati da emittenti televisive e radio. E’ come se l’underground italiano fosse stato spazzato via, gli ultimi dieci/quindici anni ne sono l’esempio vivido. Le micro realtà combattano una guerra abbastanza impari dove gli aiuti scarseggiano e il disinteresse è molto alto. In genere molte di queste si appoggiano al grandissimo valore che la musica ha in paesi come la Gran Bretagna e Germania. Pensare che Mario Biondi prima di prendere quota qui da noi è stato lanciato sulla BBC in England… Casi del genere non son cosi rari e anzi è il sogno di tanti gruppi italici trovare conforto all’estero dove le difficoltà non mancano ma vi è un rispetto alla base che da noi si è lentamente perso. Probabilmente ci meritiamo San Remo.


Luca Carlo Ceriani