sabato 24 gennaio 2009

MAMMA LI TURCHI!



Motivi plausibili e scenari possibili dell’ingresso turco nell’Unione Europea

Il titolo di questo articolo rende bene l’idea del taglio che mi prefiggo di conferire all’argomento in questione, quello dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, da più parti trattato con toni talmente messianici da rischiare di trasformare la questione in una battaglia degli assoluti che sarebbe, secondo la mia modesta opinione, fuorviante, esagerata e oltremodo controproducente . Necessitano quindi di essere sdrammatizzati con lucida obiettività.
La relazione della Turchia con L’UE può essere metaforicamente descritta come una lunga e travagliata storia di amore e odio, dato che il Paese anatolico bussò per la prima volta alle porte dell’ Occidente nel lontano 1963, con l’Accordo di Ankara e da allora ripetutamente fa capolino alla nostra finestra come un amante respinto che, senza darsi per vinto, conserva la flebile speranza che il partner muti finalmente i propri sentimenti. La Turchia è dunque un Paese europeo e può essere ammessa al consesso dell’Unione? Trattare l’argomento da un punto di vista unitario non è possibile proprio per la intrinseca complessità delle relazioni in gioco ed è giusto, a mio avviso, scindere le varie componenti della vicenda in più parti che chiariscano al meglio gli snodi profondi, che sono essenzialmente di natura identitario-culturale da un lato e politico-diplomatico dall’altro.
Il piano su cui la relazione euro-turca sembra essere, di primo acchito, più suscettibile a critiche e dubbi è sicuramente quello culturale, per lo meno considerando quella parte, forte, di sentimento popolare che vedrebbe nei nostri vicini una comunità troppo differente dall’identità europea. Il freno più importante è tirato dall’argomentazione che considera il popolo turco poco in sintonia con le caratteristiche culturali del nostro continente. Ma quali sarebbero queste caratteristiche? Se volessimo procedere con un breve excursus scopriremmo che il filo rosso del destino europeo preso ad esempio altro non è costituito che da motivazioni di carattere religioso e etnografico. Per ciò che concerne la prima motivazione, i prodromi della costruzione della “Casa Europa” vengono saldamente e esclusivamente ancorati alla comune matrice giudaico-cristiana che trasversalmente interessò la formazione delle società nazionali dalla caduta dell’Impero Romano in poi. Non vi è dubbio che la religione abbia svolto un importantissimo ruolo di fattore coesivo, ma l’argomento rischia di essere a mio avviso riduttivo e fuorviante, se non altro per il fatto che il progetto di Costituzione europea già rigettò di declinare la questione da un punto di vista teologico affermando infatti che altri sono i presupposti teoretici che l’Unione ha adottato come cardini fondanti. Non dobbiamo infatti dimenticare la natura primariamente tecnica del progetto comunitario, caratterizzata, soprattutto all’inizio, da esigenze di natura economica e politica e basata sul superamento degli storici conflitti da essa derivati durante il XIX e XX secolo. Per questo lo snodo identitario risulta alquanto pretestuoso e soprattutto pericoloso se lo si modella sulla questione religiosa. E’ infatti inevitabile constatare che la Turchia sia un Paese musulmano, ma analizzando meglio l’evoluzione della sua società dal tempo dello scossone civilista di Kemal Ataturk fino ai giorni nostri non si può fare a meno di notare quanti passi siano stati fatti nella direzione della laicizzazione dello stato. Certamente qualcuno potrebbe avanzare l’obiezione che un partito di forte estrazione religiosa sia ora al governo, ma altrettanto facilmente si potrebbe ricordare che alcuni rigurgiti di “tradizionalismo” sono un normale fenomeno di adattamento in una società tesa al cambiamento come quella turca che, naturalmente, cerca di proteggersi da repentini sconvolgimenti delle sue classiche strutture; senza poi considerare il fatto che altri Paesi europei (Italia in primis) hanno tutt’oggi un rapporto molto ambiguo con le influenze religiose nella propria vita politica e che l’ingresso di un membro proveniente da una differente orizzonte molto probabilmente non rischierebbe di “islamizzare” l’Unione (come alcuni temono), bensì di fornire l’ultimo impulso per una seria e definitiva laicizzazione delle istituzioni comunitarie tale da garantire una solida base di pari opportunità di natura civile e non teologica. L’altra motivazione addotta, quella etnografica, è essa stessa priva di fondamento, dal momento che la Comunità ha già al suo interno numerose differenze etniche con popolazioni che spesso hanno pochi tratti somiglianti o che, al massimo, si raggruppano in sottoaree culturali come quella romanza o ugro-finnica i cui unici punti di contatto sono di natura quasi prettamente linguistica, proprio perché si tratta di un’entità che sintetizza molteplici realtà nazionali.
Se un problema di aderenza alla tradizione occidentale deve a tutti i costi essere rilevato, questo semmai si situa nell’ambito giuridico. Sebbene molti passi siano stati compiuti per far allineare il codice turco a quello della maggioranza degli stati europei, come ad esempio la destituzione della pena di morte e il miglioramento del sistema penale e carcerario, altre pratiche liberticide (Orhan Pamuk incriminato!) che violano i basilari principi del moderno stato di diritto sembrano dure a morire e condizionano fortemente lo spirito di apertura di quelle nazioni che per decenni si sono battute per la diffusione delle libertà e i diritti civili al loro interno e in sede internazionale. Inoltre, pesante quanto un macigno, la questione della minoranza curda sembra tutt’altro che risolta e anche se nelle aree ad alta antropizzazione le politiche di integrazione cominciano a dare i frutti, nei profondi territori rurali molti altri episodi di discriminazione continuano a verificarsi. Il punto cruciale sembra quindi essere più l’interiorizzazione della tradizione giuridico - politica liberale ormai diffusa e istituzionalizzata in tutta la Comunità che non supposte barriere culturali e religiose, facilmente sdoganabili con efficaci politiche di mediazione su larga scala, senza dimenticare poi che i processi di socializzazione non sono delle identità con un destino già segnato ma possono essere anche indirizzati dalla volontà degli uomini verso concrete politiche di integrazione.
Lo snodo che a mio avviso è realmente importante è quello politico-diplomatico che a differenza della “questione culturale”, cartina di tornasole usata da alcune personalità per dare un fondamento teorico al no contro l’ingresso turco, può costituire sia un’eccezionale opportunità di integrazione e di aumento dell’influenza dell’Unione intesa come soggetto a se stante sia un fattore di forte destabilizzazione del processo di integrazione stesso e di stallo politico. In quest’ottica, i principali scenari diplomatici possono essere considerati tutti quanti ambivalenti e, proprio per questa caratteristica, risultano quindi cruciali ognuno nella propria peculiarità.
Il primo “fronte” da analizzare è quello della valenza simbolica di un possibile ingresso turco nell’Unione. In un epoca in cui i processi di globalizzazione, apparentemente irrefrenabili e anche poco governabili, spingono i popoli della terra a contatti sempre più pervasivi, accentuando spesso i momenti di attrito piuttosto che quelli di dialogo e nella nostra particolare epoca storica in cui diversi studiosi (per esempio S. Huntington) non scorgono altro risultato da questo processo se non uno “scontro di civiltà”, il passo definitivo dell’accettazione turca costituirebbe un fortissimo segnale di apertura e porterebbe la prova tangibile che la mediazione e la predisposizione costruttiva verso le differenze, da entrambe le parti, può anche generare risultati positivi e non solo reciproca diffidenza, odio e distruzione. L’entrata della Turchia in una realtà oggettivamente a lei non pienamente conforme potrebbe essere considerato un esempio, anche pratico, di risoluzione dei conflitti dell’area mediorientale e fornire quindi un punto di appoggio per la sua stabilizzazione, se non altro perché la credibilità dell’Unione nel porsi come mediatore aumenterebbe notevolmente avendo al suo interno un membro decisamente più affine alle caratteristiche socio-demografiche di quella regione. Inoltre, lo spostamento ad Sud-Est dei confini politici della Comunità avrebbe come risultato quello di fornire un sicuro baluardo contro ipotetiche infiltrazioni terroristiche, avvalendosi della decennale esperienza dell’esercito turco, molto ben addestrato e assai sostanzioso (circa 800’000 effettivi), che vanta una consolidata collaborazione tecnica e tattica con il vicino israeliano.
Lo scenario sembra quindi porre solo rosee aspettative, se non ché, affrontando meglio la distribuzione delle alleanze ci si accorge che l’ambivalenza riscontrabile è tutt’altro che leggera, dal momento che la collaborazione stretta tra Israele e Turchia potrebbe anche catalizzare negativamente i sentimenti delle popolazioni arabe, molto sensibili al fatto che un paese musulmano sia così strettamente legato al loro principale rivale politico e militare.
Il secondo spunto di analisi si concentra sull’ambiguo ruolo di alleato che la Turchia svolgerebbe una volta considerata la sua posizione centrale nella NATO, soprattutto in rapporto con gli Stati Uniti. Come ho poc’anzi ricordato, Ankara possiede una solidissima compagine armata che la pone come il secondo paese più militarizzato, dopo gli USA, dell’Alleanza Atlantica e proprio per questa sua vocazione di territorio cuscinetto nei confronti sia dell’area mediorientale che del potente orso sovietico, i rappresentanti di Washington vollero fortemente stabilire relazioni sempre più strette con i governi turchi. Ora che lo spauracchio dell’URSS non ha più ragione di esistere, questa sua posizione potrebbe facilmente essere utilizzata come faro di attrazione di tutte le repubbliche panturaniche (Uzbekistan, Tagikistan etc.) che precedentemente erano incatenate alla volontà di Mosca. Non v’è bisogno di sottolineare quale eccezionale possibilità di influenza su tutta l’area caucasica l’Unione si troverebbe ad esercitare, con tutti i corollari economici, commerciali e di approvvigionamento energetico al seguito, ma è certo che anche il potente alleato nordamericano si troverebbe nella posizione di esigere una relazione speciale con la Turchia in virtù delle stesse motivazioni. Non appare quindi strano e spassionato il continuo interessamento statunitense per un ingresso di Ankara negli affari di Bruxelles ed è anzi ovvia l’intenzione di manipolare questo processo di allargamento in funzione atlantista ricalcando la stessa modalità di ingerenza già sperimentata per gli ex stati socialisti e per le tre repubbliche baltiche. Come molti ricorderanno ci fu una spettacolare contingenza tra le adesioni al trattato istitutivo e l’ingresso di quelle nazioni nella NATO, così cronometricamente allineate da far impallidire anche le prestazioni del più efficiente orologio svizzero!
Bisogna quindi che gli strateghi domiciliati nelle varie capitali europee siano ben consapevoli del possibile rovescio della medaglia. Senza fomentare facili polemiche, già una volta, durante gli anni sessanta e settanta, gli Stati Uniti riuscirono nella loro opera di pilotaggio morfologico delle istituzioni comunitarie, inserendo attivamente il piede di porco britannico come avamposto di sicuro controllo delle vicende continentali; non sia mai che la storia si ripeta perché in questo frangente il risultato sarebbe assai deleterio e comprometterebbe pesantemente la capacità di autonomia estera dell’UE, precipitandola forse per sempre al rango di vassallo degli yankees.
Il terzo scenario, meno citato ma quello probabilmente più importante, ha a che fare con l’annosa questione della divisione dell’isola di Cipro in due entità politiche dal 1974 ed è quello che maggiormente ostacola la ripresa dei negoziati e che si insinua come una spina nel fianco della politica interna all’Unione. Oltre ai dubbi di natura sia culturale che politica fin qui evidenziati, la situazione cipriota apre un serio fronte di conflitto e viene ripetutamente avanzata come scoglio insormontabile sia dalla Grecia che da altri membri ogni qual volta il governo di Ankara avanza richieste. Se infatti la parte nord dell’isola è sede di un governo di occupazione turca, riconosciuto solo dallo stato anatolico e quindi passibile di tutti i crismi di illegalità internazionale collegata ad una simile situazione, va anche sottolineato il fatto che sia Atene che i suoi fiancheggiatori (su tutti, la Gran Bretagna che gode dell’extraterritorialità di due basi) non hanno mai lasciato trasparire la seria volontà di giungere ad un compromesso, consapevoli forse che la reazione militare turca degli anni settanta avvenne a ragion veduta per tutelare la minoranza del nord dal colpo di stato filo-ellenico, avvenimento che tra l’altro sovvertì la pacifica organizzazione data all’isola dagli accordi del 16 agosto 1960. La questione è oltremodo imbarazzante soprattutto se si considera che i due Paesi sono entrambi membri della NATO! Un possibile spiraglio potrebbe verificarsi solo nel momento in cui una consistente maggioranza di Paesi europei ponessero alle parti un ultimatum di collaborazione al fine di sbloccare lo stallo e porre come condizione per ulteriori negoziati il ripristino della sovranità dell’isola. Certamente ciò non dovrebbe significare una unilaterale ritirata di Ankara, bensì un nuovo processo di riorganizzazione amministrativa che consenta la migliore gestione delle divisioni etniche sotto l’egida, anche militare, dell’Unione stessa.
La conclusione che si può trarre è quindi molto semplice e come il suo autore, ispirata dai più elementari principi di realismo politico. Quando i Padri della Comunità intrapresero il cammino, difficile ma avvincente, del processo di integrazione difficilmente credo avrebbero vaticinato che un così radicale e imponente meccanismo politico si sarebbe messo in moto. Tuttavia, i casi della storia hanno fatto sì che l’embrionale CECA si trasformasse in quanto di più simile all’idea di Giovine Europa sia oggi riscontrabile, ponendo le fondamenta per una futura entità che finalmente costituisca la casa di tutti gli europei. Ed è con tale spirito pionieristico che i nostri governanti dovrebbero rompere lo stallo negoziale e continuare nel processo di avvicinamento alla Turchia, comprendendo sia le enormi potenzialità che questo nuovo membro porterebbe con sé, sia schivando gli ipotetici rischi che la sua posizione di borderliner inevitabilmente comporta con l’unico scopo in mente di costruire una comunità sempre più ricca e sempre più forte. Del resto alternative concrete non si intravedono, né ritengo sia seriamente plausibile ritornare sui passi fatti, soprattutto se questi hanno moltiplicato i sentieri di collaborazione tra l’Europa e la Turchia negli ultimi 40 anni, legando ormai a doppio filo i destini di questi due soggetti politici.
Federico Maisenti

Nessun commento: