sabato 24 gennaio 2009

SLOVACCHIA: BENVENUTA NELL’EURO


La Slovacchia dal 1° Gennaio 2009 è la sedicesima nazione dell’Unione Europea ad aver adottato l’Euro.

Con un tasso di cambio di 30.13 Corone per un Euro, la Slovacchia è il sedicesimo Stato membro ad aver adottato l’euro, ed è la quarta nazione tra i nuovi Paesi membri entrati nel 2004 ad aver adottato la moneta unica dopo la Slovenia, Cipro e Malta.
A lungo si è stati titubanti sul reale ingresso della Slovacchia in Eurolandia, visto che attualmente è fuori dal parametro di Maastricht riguardante l’inflazione (che deve essere al di sotto dell’1,5% dei dodici paesi più virtuosi), che attualmente è al 4.7%, secondo una rilevazione fatta a Novembre 2008, ed una parte del Parlamento europeo infatti aveva chiesto di rimandare il suo ingresso fino al 2010. La Commissione europea ed il Consiglio dei ministri hanno però approvato il suo ingresso l’8 Luglio del 2008, ed il Parlamento ha approvato in seguito con 519 voti a favore. Le istituzioni europee, hanno preferito in questo caso anticipare i tempi, al fine di mettere la Slovacchia sotto l’ombrello protettivo dell’eurozona, per evitarle i rischi di forte svalutazione delle monete piccole (ed anche più grandi, basti vedere la situazione della Sterlina inglese) che si sta verificando in questo periodo di crisi.
Per far sentire più vicino al cuore slovacco la nuova moneta, è stato fatto un sondaggio per decidere quali effigie imprimere. Gli slovacchi si sono trovati a votare ad un referendum su dieci icone, per sceglierne tre. Dal 20 dicembre si sa che le monete da 1, 2 e 5 eurocent recheranno l’effige del monte Kriváň; quelle da 10, 20 e 50 eurocent raffigureranno il castello di Bratislava e quelle da 1 e 2 euro porteranno il classico stemma slovacco, la croce patriarcale sulle tre alture dei monti Matra, Tatra e Fatra.
La popolazione ha apprezzato l’ingresso nella zona Euro, secondo un recente sondaggio, infatti, il 58% apprezza la moneta unica, anche se il 65% degli slovacchi teme però che con l’introduzione dell’Euro vi sia anche un aumento dei prezzi, anche se il governo, retto dal social-democratico Fico, ha imposto una controllo serrato sui prezzi. In generale comunque la Slovacchia è uno dei paesi che fino ad ora ha retto meglio alla crisi, con una previsione di crescita del PIL nel 2009 del 4%: dimezzata rispetto all’anno precedente, ma sicuramente di molto superiore a quella di buona parte degli altri paesi dell’area Euro.


Roberto Novelli

Europa olimpica nel 2012 (forse)


Le Olimpiadi cinesi si sono concluse da pochi mesi ed è ancora vivo il ricordo delle gare e delle medaglie, ma i comitati olimpici di tutto il mondo sono già al lavoro per preparare la prossima edizione dei giochi, che si svolgerà a Londra nel 2012. In vista di questo importante appuntamento sportivo l’Associazione Radicale Esperanto (ERA), soggetto costituente del Partito Radicale Nonviolento, ha avanzato due proposte che riguardano i paesi membri dell’Unione Europea: la possibilità per gli atleti europei di gareggiare con la bandiera dell’Unione accanto a quella nazionale; il conteggio formale dei risultati dell’Unione nel medagliere olimpico. Riccardo Agabio, vicepresidente del CONI, il comitato olimpico italiano, si è già espresso favorevolmente su questo argomento, durante un intervento ai microfoni di Radio Radicale. Se le proposte dell’ERA possono apparire puro folklore di fronte alle sfide e alle difficoltà di carattere economico, culturale e istituzionale del processo di integrazione europea, bisogna però tenere in debita considerazione l’impatto simbolico che esse potrebbero avere. Le bocciature referendarie, prima in Francia e Olanda e poi anche in Irlanda, che il trattato costituzionale europeo ha incontrato sul suo cammino, unite ai risultati di numerosi sondaggi e alla costante crescita elettorale dei partiti nazionalisti un po’ dovunque nel continente, ci restituiscono l’immagine di una cittadinanza europea sfiduciata e disunita. Gli europei sembrano preferire l’Europa delle patrie alla patria Europa e questo atteggiamento non può che costituire un freno per l’integrazione. Anche il leader politico più europeista deve sempre fare i conti con gli umori del suo elettorato. Come invertire dunque la tendenza? Quando i cittadini di diversi paesi europei si troveranno allo stadio oppure davanti alla televisione a fare il tifo per lo stesso atleta, magari in competizione con avversari provenienti da altre regioni del pianeta, quando poi quei cittadini, a fine giornata, osserveranno il medagliere e vedranno la bandiera stellata stabilmente in cima alle classifiche (l’insieme delle medaglie vinte dai singoli paesi avrebbe consentito all’Europa unita di surclassare Stati Uniti e Cina anche durante la più recente edizione), ecco allora forse risorgerà un autentico spirito europeo anche a livello popolare. Lo sport è capace di suscitare emozioni e di creare appartenenze che vanno ben al di là dei trattati e dei vertici internazionali. D’altronde non si dice che gli italiani diventano patriottici solo quando vedono giocare la nazionale di calcio? E non potrebbe valere lo stesso anche per gli europei?

Marco Del Ciello

MOSCA AMMETTE: E' STATO PUTIN AD ORDINARE L'INTERRUZIONE DELLE FORNITURE DI GAS

E' il primo ministro della Federazione Russa, Vladimir Putin, il responsabile del blocco totale delle forniture di gas in direzione dell'Ucraina, proposta avanzatagli del capo del consorzio monopolistico Gazprom Aleksej Miller. Così riporta l'emittente NTV.

Ancora la mattina del 7 gennaio, Gazprom incolpava Kyiv per la chiusura del quarto (l'ultimo) gasdotto attraverso il quale il gas russo viene trasportato agli altri paesi europei.

Tuttavia, più tardi è emerso come sia stato lo stesso Putin ad ordinare il taglio totale delle erogazioni di gas verso l'Ucraina, facendo propria la proposta di Aleksej Miller, con cui il primo ministro russo ha avuto un incontro nella sua residenza di proprietà nei pressi di Pietroburgo. I dettagli ed i retroscena dell'incontro sono stati accuratamente documentati da NTV, emittente televisiva dell'impero mediatico di Gazprom.

"Sono in totale accordo con la Sua proposta. Tuttavia bisogna farlo pubblicamente, in presenza di osservatori internazionali" ha risposto Putin secondo quanto riportato da NTV. Sempre in base alla medesima fonte di informazione – tradizionalmente attendibile sulle questioni di politica interna russa – Putin avrebbe anche chiesto a Miller se Gazprom fosse in possesso, oltre al rapporto accuratamente preparato dagli esperti del colosso monopolista russo, di qualche documento attestante le responsabilità ucraine sull'interruzione dell'afflusso di gas in Europa da poter utilizzare come capo d'accusa nei confronti di Kyiv in ambito internazionale.

La conseguenza dell'ordine di Putin ha comportato l'immediata drastica riduzione dell'afflusso di gas in alcuni paesi UE, ed in altri addirittura l'interruzione totale. In un paio d'ore Ungheria, Bosnia, Bulgaria, Grecia e Turchia – rifornite unicamente per mezzo di condutture transitanti attraverso l'Ucraina, a differenza di Polonia e Paesi baltici, che possono contare anche sugli approvvigionamenti dei gasdotti che passano per il territorio bielorusso – sono rimaste a secco: il premier bulgaro Sergej Stanišev ha subito telefonato alle autorità russe per convincerli che l'UE non può essere vittima dello scontro tra Mosca e Kyiv. La Slovacchia ha dichiarato lo stato di emergenza economica.
La sera dello stesso giorno, la crisi è stata avvertita anche in Francia – dove gli approvvigionamenti sono diminuiti del 70% - Italia – che ha registrato un calo di circa il 90% – e Germania, dove le imprese tedesche hanno ammesso la ricezione di minor quantità di gas senza, però, specificarne la quantità.
"Senza assicurazioni da parte delle più alte autorità russe ed ucraine le forniture di gas ai paesi europei sono sensibilmente diminuite. Tale situazione è per noi inaccettabile" hanno scritto in una nota congiunta la Commissione Europea e la presidenza ceca dell'Unione.

Sebbene Praga escludesse inizialmente una mediazione europea nel conflitto tra Mosca e Kyiv, il ministro ceco dell'Industria e del Commercio Martin Řiman ha constatato come la presa di posizione di Bruxelles abbia "cambiato radicalmente la situazione", ed ora la presidenza di turno ceca non esclude l'organizzazione di un vertice UE ad hoc insieme con i rappresentanti di Russia ed Ucraina. "E' nostro interesse fare di tutto affinché ambo le parti raggiungano un accordo" ha dichiarato il premier ceco Mirek Topolánek.

Altro Paese molto attivo sul piano diplomatico per risolvere la crisi è la Polonia: il premier Donald Tusk ha proposto un summit tra i ministri dell'industria e dello sviluppo economico dei paesi dell'Unione per concordare una comune posizione europea; il ministro della difesa Radosław Sikorski ha comunicato che Varsavia pur cercando di non inasprire lo scontro con la Russia "sarà ambasciatrice a Bruxelles delle ragioni dell'Ucraina"; il presidente Lech Kaczyński, invece, dopo aver sottolineato la necessità di una posizione più dura nei confronti di Mosca, si consulterà coi colleghi slovacco, ungherese e ceco in occasione della riunione del quartetto di Vyšegrad, in programma a Bratislava nei prossimi giorni.

A dimostrazione della responsabilità russa sull'interruzione della forniture di gas all'Europa, il 6 gennaio il presidente ucraino Vyktor Juščenko ha fatto appello a Mosca per un "immediato" ripristino del transito di combustibile attraverso l'Ucraina con un lettera inviata al presidente russo Dmitrij Medvedev e al capo della Commissione Europea José Manuel Barroso. In essa, Juščenko ha anche ribadito la piena disponibilità da parte di Kyiv a garantire il regolare transito di gas attraverso il territorio ucraino.

Matteo Cazzulani


Presidente associazione Annaviva

MAMMA LI TURCHI!



Motivi plausibili e scenari possibili dell’ingresso turco nell’Unione Europea

Il titolo di questo articolo rende bene l’idea del taglio che mi prefiggo di conferire all’argomento in questione, quello dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, da più parti trattato con toni talmente messianici da rischiare di trasformare la questione in una battaglia degli assoluti che sarebbe, secondo la mia modesta opinione, fuorviante, esagerata e oltremodo controproducente . Necessitano quindi di essere sdrammatizzati con lucida obiettività.
La relazione della Turchia con L’UE può essere metaforicamente descritta come una lunga e travagliata storia di amore e odio, dato che il Paese anatolico bussò per la prima volta alle porte dell’ Occidente nel lontano 1963, con l’Accordo di Ankara e da allora ripetutamente fa capolino alla nostra finestra come un amante respinto che, senza darsi per vinto, conserva la flebile speranza che il partner muti finalmente i propri sentimenti. La Turchia è dunque un Paese europeo e può essere ammessa al consesso dell’Unione? Trattare l’argomento da un punto di vista unitario non è possibile proprio per la intrinseca complessità delle relazioni in gioco ed è giusto, a mio avviso, scindere le varie componenti della vicenda in più parti che chiariscano al meglio gli snodi profondi, che sono essenzialmente di natura identitario-culturale da un lato e politico-diplomatico dall’altro.
Il piano su cui la relazione euro-turca sembra essere, di primo acchito, più suscettibile a critiche e dubbi è sicuramente quello culturale, per lo meno considerando quella parte, forte, di sentimento popolare che vedrebbe nei nostri vicini una comunità troppo differente dall’identità europea. Il freno più importante è tirato dall’argomentazione che considera il popolo turco poco in sintonia con le caratteristiche culturali del nostro continente. Ma quali sarebbero queste caratteristiche? Se volessimo procedere con un breve excursus scopriremmo che il filo rosso del destino europeo preso ad esempio altro non è costituito che da motivazioni di carattere religioso e etnografico. Per ciò che concerne la prima motivazione, i prodromi della costruzione della “Casa Europa” vengono saldamente e esclusivamente ancorati alla comune matrice giudaico-cristiana che trasversalmente interessò la formazione delle società nazionali dalla caduta dell’Impero Romano in poi. Non vi è dubbio che la religione abbia svolto un importantissimo ruolo di fattore coesivo, ma l’argomento rischia di essere a mio avviso riduttivo e fuorviante, se non altro per il fatto che il progetto di Costituzione europea già rigettò di declinare la questione da un punto di vista teologico affermando infatti che altri sono i presupposti teoretici che l’Unione ha adottato come cardini fondanti. Non dobbiamo infatti dimenticare la natura primariamente tecnica del progetto comunitario, caratterizzata, soprattutto all’inizio, da esigenze di natura economica e politica e basata sul superamento degli storici conflitti da essa derivati durante il XIX e XX secolo. Per questo lo snodo identitario risulta alquanto pretestuoso e soprattutto pericoloso se lo si modella sulla questione religiosa. E’ infatti inevitabile constatare che la Turchia sia un Paese musulmano, ma analizzando meglio l’evoluzione della sua società dal tempo dello scossone civilista di Kemal Ataturk fino ai giorni nostri non si può fare a meno di notare quanti passi siano stati fatti nella direzione della laicizzazione dello stato. Certamente qualcuno potrebbe avanzare l’obiezione che un partito di forte estrazione religiosa sia ora al governo, ma altrettanto facilmente si potrebbe ricordare che alcuni rigurgiti di “tradizionalismo” sono un normale fenomeno di adattamento in una società tesa al cambiamento come quella turca che, naturalmente, cerca di proteggersi da repentini sconvolgimenti delle sue classiche strutture; senza poi considerare il fatto che altri Paesi europei (Italia in primis) hanno tutt’oggi un rapporto molto ambiguo con le influenze religiose nella propria vita politica e che l’ingresso di un membro proveniente da una differente orizzonte molto probabilmente non rischierebbe di “islamizzare” l’Unione (come alcuni temono), bensì di fornire l’ultimo impulso per una seria e definitiva laicizzazione delle istituzioni comunitarie tale da garantire una solida base di pari opportunità di natura civile e non teologica. L’altra motivazione addotta, quella etnografica, è essa stessa priva di fondamento, dal momento che la Comunità ha già al suo interno numerose differenze etniche con popolazioni che spesso hanno pochi tratti somiglianti o che, al massimo, si raggruppano in sottoaree culturali come quella romanza o ugro-finnica i cui unici punti di contatto sono di natura quasi prettamente linguistica, proprio perché si tratta di un’entità che sintetizza molteplici realtà nazionali.
Se un problema di aderenza alla tradizione occidentale deve a tutti i costi essere rilevato, questo semmai si situa nell’ambito giuridico. Sebbene molti passi siano stati compiuti per far allineare il codice turco a quello della maggioranza degli stati europei, come ad esempio la destituzione della pena di morte e il miglioramento del sistema penale e carcerario, altre pratiche liberticide (Orhan Pamuk incriminato!) che violano i basilari principi del moderno stato di diritto sembrano dure a morire e condizionano fortemente lo spirito di apertura di quelle nazioni che per decenni si sono battute per la diffusione delle libertà e i diritti civili al loro interno e in sede internazionale. Inoltre, pesante quanto un macigno, la questione della minoranza curda sembra tutt’altro che risolta e anche se nelle aree ad alta antropizzazione le politiche di integrazione cominciano a dare i frutti, nei profondi territori rurali molti altri episodi di discriminazione continuano a verificarsi. Il punto cruciale sembra quindi essere più l’interiorizzazione della tradizione giuridico - politica liberale ormai diffusa e istituzionalizzata in tutta la Comunità che non supposte barriere culturali e religiose, facilmente sdoganabili con efficaci politiche di mediazione su larga scala, senza dimenticare poi che i processi di socializzazione non sono delle identità con un destino già segnato ma possono essere anche indirizzati dalla volontà degli uomini verso concrete politiche di integrazione.
Lo snodo che a mio avviso è realmente importante è quello politico-diplomatico che a differenza della “questione culturale”, cartina di tornasole usata da alcune personalità per dare un fondamento teorico al no contro l’ingresso turco, può costituire sia un’eccezionale opportunità di integrazione e di aumento dell’influenza dell’Unione intesa come soggetto a se stante sia un fattore di forte destabilizzazione del processo di integrazione stesso e di stallo politico. In quest’ottica, i principali scenari diplomatici possono essere considerati tutti quanti ambivalenti e, proprio per questa caratteristica, risultano quindi cruciali ognuno nella propria peculiarità.
Il primo “fronte” da analizzare è quello della valenza simbolica di un possibile ingresso turco nell’Unione. In un epoca in cui i processi di globalizzazione, apparentemente irrefrenabili e anche poco governabili, spingono i popoli della terra a contatti sempre più pervasivi, accentuando spesso i momenti di attrito piuttosto che quelli di dialogo e nella nostra particolare epoca storica in cui diversi studiosi (per esempio S. Huntington) non scorgono altro risultato da questo processo se non uno “scontro di civiltà”, il passo definitivo dell’accettazione turca costituirebbe un fortissimo segnale di apertura e porterebbe la prova tangibile che la mediazione e la predisposizione costruttiva verso le differenze, da entrambe le parti, può anche generare risultati positivi e non solo reciproca diffidenza, odio e distruzione. L’entrata della Turchia in una realtà oggettivamente a lei non pienamente conforme potrebbe essere considerato un esempio, anche pratico, di risoluzione dei conflitti dell’area mediorientale e fornire quindi un punto di appoggio per la sua stabilizzazione, se non altro perché la credibilità dell’Unione nel porsi come mediatore aumenterebbe notevolmente avendo al suo interno un membro decisamente più affine alle caratteristiche socio-demografiche di quella regione. Inoltre, lo spostamento ad Sud-Est dei confini politici della Comunità avrebbe come risultato quello di fornire un sicuro baluardo contro ipotetiche infiltrazioni terroristiche, avvalendosi della decennale esperienza dell’esercito turco, molto ben addestrato e assai sostanzioso (circa 800’000 effettivi), che vanta una consolidata collaborazione tecnica e tattica con il vicino israeliano.
Lo scenario sembra quindi porre solo rosee aspettative, se non ché, affrontando meglio la distribuzione delle alleanze ci si accorge che l’ambivalenza riscontrabile è tutt’altro che leggera, dal momento che la collaborazione stretta tra Israele e Turchia potrebbe anche catalizzare negativamente i sentimenti delle popolazioni arabe, molto sensibili al fatto che un paese musulmano sia così strettamente legato al loro principale rivale politico e militare.
Il secondo spunto di analisi si concentra sull’ambiguo ruolo di alleato che la Turchia svolgerebbe una volta considerata la sua posizione centrale nella NATO, soprattutto in rapporto con gli Stati Uniti. Come ho poc’anzi ricordato, Ankara possiede una solidissima compagine armata che la pone come il secondo paese più militarizzato, dopo gli USA, dell’Alleanza Atlantica e proprio per questa sua vocazione di territorio cuscinetto nei confronti sia dell’area mediorientale che del potente orso sovietico, i rappresentanti di Washington vollero fortemente stabilire relazioni sempre più strette con i governi turchi. Ora che lo spauracchio dell’URSS non ha più ragione di esistere, questa sua posizione potrebbe facilmente essere utilizzata come faro di attrazione di tutte le repubbliche panturaniche (Uzbekistan, Tagikistan etc.) che precedentemente erano incatenate alla volontà di Mosca. Non v’è bisogno di sottolineare quale eccezionale possibilità di influenza su tutta l’area caucasica l’Unione si troverebbe ad esercitare, con tutti i corollari economici, commerciali e di approvvigionamento energetico al seguito, ma è certo che anche il potente alleato nordamericano si troverebbe nella posizione di esigere una relazione speciale con la Turchia in virtù delle stesse motivazioni. Non appare quindi strano e spassionato il continuo interessamento statunitense per un ingresso di Ankara negli affari di Bruxelles ed è anzi ovvia l’intenzione di manipolare questo processo di allargamento in funzione atlantista ricalcando la stessa modalità di ingerenza già sperimentata per gli ex stati socialisti e per le tre repubbliche baltiche. Come molti ricorderanno ci fu una spettacolare contingenza tra le adesioni al trattato istitutivo e l’ingresso di quelle nazioni nella NATO, così cronometricamente allineate da far impallidire anche le prestazioni del più efficiente orologio svizzero!
Bisogna quindi che gli strateghi domiciliati nelle varie capitali europee siano ben consapevoli del possibile rovescio della medaglia. Senza fomentare facili polemiche, già una volta, durante gli anni sessanta e settanta, gli Stati Uniti riuscirono nella loro opera di pilotaggio morfologico delle istituzioni comunitarie, inserendo attivamente il piede di porco britannico come avamposto di sicuro controllo delle vicende continentali; non sia mai che la storia si ripeta perché in questo frangente il risultato sarebbe assai deleterio e comprometterebbe pesantemente la capacità di autonomia estera dell’UE, precipitandola forse per sempre al rango di vassallo degli yankees.
Il terzo scenario, meno citato ma quello probabilmente più importante, ha a che fare con l’annosa questione della divisione dell’isola di Cipro in due entità politiche dal 1974 ed è quello che maggiormente ostacola la ripresa dei negoziati e che si insinua come una spina nel fianco della politica interna all’Unione. Oltre ai dubbi di natura sia culturale che politica fin qui evidenziati, la situazione cipriota apre un serio fronte di conflitto e viene ripetutamente avanzata come scoglio insormontabile sia dalla Grecia che da altri membri ogni qual volta il governo di Ankara avanza richieste. Se infatti la parte nord dell’isola è sede di un governo di occupazione turca, riconosciuto solo dallo stato anatolico e quindi passibile di tutti i crismi di illegalità internazionale collegata ad una simile situazione, va anche sottolineato il fatto che sia Atene che i suoi fiancheggiatori (su tutti, la Gran Bretagna che gode dell’extraterritorialità di due basi) non hanno mai lasciato trasparire la seria volontà di giungere ad un compromesso, consapevoli forse che la reazione militare turca degli anni settanta avvenne a ragion veduta per tutelare la minoranza del nord dal colpo di stato filo-ellenico, avvenimento che tra l’altro sovvertì la pacifica organizzazione data all’isola dagli accordi del 16 agosto 1960. La questione è oltremodo imbarazzante soprattutto se si considera che i due Paesi sono entrambi membri della NATO! Un possibile spiraglio potrebbe verificarsi solo nel momento in cui una consistente maggioranza di Paesi europei ponessero alle parti un ultimatum di collaborazione al fine di sbloccare lo stallo e porre come condizione per ulteriori negoziati il ripristino della sovranità dell’isola. Certamente ciò non dovrebbe significare una unilaterale ritirata di Ankara, bensì un nuovo processo di riorganizzazione amministrativa che consenta la migliore gestione delle divisioni etniche sotto l’egida, anche militare, dell’Unione stessa.
La conclusione che si può trarre è quindi molto semplice e come il suo autore, ispirata dai più elementari principi di realismo politico. Quando i Padri della Comunità intrapresero il cammino, difficile ma avvincente, del processo di integrazione difficilmente credo avrebbero vaticinato che un così radicale e imponente meccanismo politico si sarebbe messo in moto. Tuttavia, i casi della storia hanno fatto sì che l’embrionale CECA si trasformasse in quanto di più simile all’idea di Giovine Europa sia oggi riscontrabile, ponendo le fondamenta per una futura entità che finalmente costituisca la casa di tutti gli europei. Ed è con tale spirito pionieristico che i nostri governanti dovrebbero rompere lo stallo negoziale e continuare nel processo di avvicinamento alla Turchia, comprendendo sia le enormi potenzialità che questo nuovo membro porterebbe con sé, sia schivando gli ipotetici rischi che la sua posizione di borderliner inevitabilmente comporta con l’unico scopo in mente di costruire una comunità sempre più ricca e sempre più forte. Del resto alternative concrete non si intravedono, né ritengo sia seriamente plausibile ritornare sui passi fatti, soprattutto se questi hanno moltiplicato i sentieri di collaborazione tra l’Europa e la Turchia negli ultimi 40 anni, legando ormai a doppio filo i destini di questi due soggetti politici.
Federico Maisenti

Una noche en … Salamanca!

Salamanca è conosciuta in tutta Spagna come la città del divertimento per antonomasia.
La città dove tutto è possibile, soprattutto durante la notte!
Popolata da studenti universitari provenienti da ogni parte del mondo che favoriscono a rendere la notte Salamantina, speciale, magica, diversa , UNICA!
La noche Salamantina è solita cominciare nel rinomato bar chiamato “LA CHUPITERIA” il locale chupiti con la C maiuscola, per poi passare direttamente al camelot un ex-convento che è stato poi convertito nell’attuale tempio del divertimento.
Dopo queste due tappe “fisse”c’è l’imbarazzo della scelta, a seconda del taglio che vuoi dare alla tua serata; se hai voglia di una serata forte, il cubic è il locale per te, in particolare il venerdì con il suo dj set elettronica – minimal – techno ti farà ballare fino alle 7 della mattina. Se invece cerchi qualcosa di più soft vai al khandavia, musica commerciale e successi dagli anni 80 ai giorni nostri. Se infine cerchi un suono più alternativo il British museum e il Piper ti offrono una suono rock , pop, indie e alternative anni ‘60/’70/’80.
Se invece non vuoi fermarti in un locale solo, ma visitarne piu di uno, Salamanca è piena di stupendi disco – pub, il country è un esempio, locale arredato stile Gaudì, musica diversa ogni sera, oppure il dolcevita, il Luux, l’Atahualpa e il suo giovedì open bar, la Bibliotheca e le sue serate universitarie, o la posada de las animas e le sue serate a tema e i suoi cocktail omaggio per poi fare tappa al paniagua il “centro sociale” salamantino dove dovrai provare la specialità della casa: il Calimocio. Potrai ascoltare pezzi storici e vecchi successi musicali mondiali, cantare e ballare tra la folla e se hai voglia e tempo potrai anche farti una bella partita a biliardino fila permettendo, visto che è l’attrattiva del locale ed è sempre occupato!
Ovviamente anche l’irish rover è da provare, le serate migliori sono il lunedì con il gioco della birra preferito dagli americani, il martedi con la serata erasmus a tema e l’open bar fino alle 3 del mattino, e il mercoledi con il karaoke-canta tu!
La vita notturna di Salamanca, non si sa mai bene a che ora cominci, qualche volta comincia alle 11 ritrovandosi in plaza mayor sotto l’orologio, altre volte comincia alle 2 dopo una cena o un bottellon a casa di amici, ma una cosa è certa ... non finisce mai prima delle 6!



Giulia Scotti

ITALIANS DO IT WORST


Un egemonia lunga quasi trent’anni, in Italia chi comanda le classifiche musicale è un sparuto gruppo di artisti che proprio non ne vuole sapere di andare in pensione.
Ma non è certo esclusivamente colpa della loro cupidigia, in parte la carenza di novità di un settore volutamente lasciato in disarmo, ha fatto in modo che le novità introdotte di anno in anno potessero essere davvero poche, tanto che se si confrontano le classifiche ufficiali degli ultimi 20anni i nomi son sempre gli stessi e pochissime band si sono aggiunte. Questo per quanto riguarda il mercato nazionale, negli altri paesi europei affianco dei vari “dinosauri” nazional-popolari vi è un sottobosco fitto e fresco di band musicali, tendenze e generi che inquinano le chart di ogni tipo.
Forse la mancanza di una cultura musicale, spazi ridotti, gestori dei locali improponibili, regole severe e i lunghi tentacoli della SIAE hanno pesantemente influito sulla carenza di progetti freschi made in Italy. Il risultato è che siamo la nazione delle cover bands; le uniche che riescono a suonare nei locali italiani son quelle band che scimmiottano i grandi nomi italiani e non. E così Vasco Rossi, Ligabue, la Pausini, Tiziano Ferro e Subsonica riescono a penetrare ovunque lasciando le briciole al resto. Gli eventi più importanti di musica indipendente italiana faticano a sopravvivere, in parte perché le autorità comunali e para statali hanno una percezione della musica che si ferma a Patty Pravo in parte perché non vi è un grandissimo interesse in materia, le classifiche italiane rispecchiano il gusto dei giovani( sigh) che rimangono fortemente ancorati al passato e poco propensi a nuovi progetti che non siano sapientemente già confezionati da emittenti televisive e radio. E’ come se l’underground italiano fosse stato spazzato via, gli ultimi dieci/quindici anni ne sono l’esempio vivido. Le micro realtà combattano una guerra abbastanza impari dove gli aiuti scarseggiano e il disinteresse è molto alto. In genere molte di queste si appoggiano al grandissimo valore che la musica ha in paesi come la Gran Bretagna e Germania. Pensare che Mario Biondi prima di prendere quota qui da noi è stato lanciato sulla BBC in England… Casi del genere non son cosi rari e anzi è il sogno di tanti gruppi italici trovare conforto all’estero dove le difficoltà non mancano ma vi è un rispetto alla base che da noi si è lentamente perso. Probabilmente ci meritiamo San Remo.


Luca Carlo Ceriani